Teatri di vetro numero 4 ha chiuso battenti restituendo una fotografia della scena romana, italiana e anche europea (viste le incursioni con compagnie che lavorano anche oltralpe) di grande fermento creativo nonostante una situazione del teatro italiano, soprattutto quello di ricerca, tutt'altro che rosea dal punto di vista dei finanziamenti statali ma, al di là del denaro, di un interesse dello Stato che vede il Governo sempre più assente mentre gli enti locali in prima linea a difendere fino all'impossibile il mantenimento di un tessuto connettivo tra teatro e pubblico al di là dello stretto consumo di spettacoli cui lo stato italiano sembra voler relegare il ruolo dei cittadini (come spiega bene Graziano Graziani nell'introduzione al libro da lui curato Zone Teatrali Libere edito per i tipi della Editoria & Spettacolo.
Teatri di Vetro insomma non si limita ad essere una vetrina delle produzioni contemporanee varie e interessanti ma si impone con forza come luogo di ritrovo di uno pubblico che, nonostante la pioggia, ha seguito tutti gli eventi quelli del palco del Palladium e anche dei lotti e altri luoghi deputati del Festival.
Conclusa questa quarta edizione possiamo dire che teatri di vetro si è guadagnato lo status di autorevole punto di riferimento per il teatro italiano, autorevole ed eclettico, sensibile a compagnie e spettacoli diversissimi tra di loro, come è giusto che sia, in una rassegna agile e intelligente.
Di seguito il resoconto degli ultimi spettacoli che siamo riusciti a vedere la gironata di sabato, che vanno acompletare quelli recensiti nelle gironate precendeti che potete leggere cliccando qui
settima giornata 22 maggio 2010
Serata interessante anche se un po' triste visto che il festival volge al termine.
Solo due gli spettacoli che siamo riusciti a vedere per sovrapposizioni di orari (e stanchezza del recensore...)
I fiori di arancio della Compagnia Andrea Soggiorno di Napoli ci è parsa un'occasione mancata. Uno di quei classici esempi di teatro che, ahinoi, pur allestendo una messa in scena colta e complessa non riesce a comunicare col pubblico. Sul palco uno schermo cinematografico e, di fianco, un pianoforte verticale, come si usava una volta, un secolo fa, quando il cinema era muto.
Le luci in sala si abbassano e un uomo raggiunge il pianoforte, una donna di rosso vestita e con un ombrello in tinta si pone di fianco allo schermo. Le luci si spengono, il pianista comincia a suonare, un proiettore viene azionato e le immagini in pellicola proiettate sullo schermo ma dopo qualche fotogramma sporco e graffiato l'assenza di immagini ci regala una luce bianca, sullo schermo bianco mentre due ragazzi vestiti di t-shirt e jeans salgono sul palco e si impegnano in una lotta corpo a corpo interminabile, davanti lo schermo venendo così illuminati dalla luce pura del proiettore. Al buio, la donna di rosso vestita assiste al combattimento al margine dello schermo. Quando dal proiettore arrivano delle immagini i due ragazzi smettono di lottare distratti dalle onde del mare che sono comparse sullo schermo. La lotta tra i due riprende dietro lo schermo quando, spento il proiettore, delle luci appositamente studiate creano una zona di opalescenza che traspare da dietro lo schermo attraverso di esso. I due ragazzi si muovono variando la distanza dallo schermo comparendo e scomparendo alla vista. Poi è la volta della donna che con l'abito rosso e l'ombrello aperto riflette il colore che indossa e vira lo schermo di rosso. La lotta segue col coltello. Uno dei due ragazzi rimane a torso nudo. L'altro viene sostituito da un fantoccio che poi, nel finale, vediamo bruciare in una nuova proiezione in pellicola.
Intanto la musica dal vivo, parossistica e virtuosissima, suonata al pianoforte cede spazio alla recitazione (amplificata da un microfono) e alla musica registrata. Sin dall'inizio una voce ci aveva parlato dell'errore che una persona che sogna commette quando nel sogno dice "io sogno" proprio come se nel sogno dicesse "piove" quand'anche nel mondo reale stesse piovendo"... E' una ragionamento tratto da Wittgesntein. Seguiranno citazioni da Ovidio, da Jarman, riflessioni altrettanto eteree, sul filo di una logica onirica... Ecco. La pellicola, le immagini girate, l'impiego dello schermo che raccoglie immagini davanti e dietro, l'impiego delle sagome nere come nelle ombre cinesi, sono elementi di uno spettacolo che è costato fatica, impegno, tempo e denaro, ma tutto ciò cosa comunica al pubblico? Cosa racconta? Quali emozioni trasmette? Quali riflessioni invita a fare? Qual è il senso politico (nel senso originale del fare insieme dei cittadini...)?
Noi non sappiamo dirlo e temiamo nemmeno il pubblico. Con la speranza che qualcuno ci contraddica...
I FIORI D’ARANCIO
Compagnia Andrea Saggiomo (Napoli)
Con Gaëlle Cavalieri, Fulvio Padulano, Gianluca Raia
Regia e disegno luci: Andrea Saggiomo
Per assistere ad Eresia [1- la fabbrica delle Parole] si entra a teatro ma non ci si accomoda in platea, si prosegue per una corridoio laterale e ci si ritrova sul palco. Delle panche accolgono lo spettatore mentre una luce al quarzo puntata contro, lo abbaglia. Riparandosi dalla luce con una mano si intravedono solo alcuni tubi piantati nel terreno, tronchi d'alberi di un bosco simbolico, e, dietro, in fondo, una struttura complessa costruita sempre coi dei tubi.
Poi la sala piomba nel buio assoluto. Niente luci guida per i gradini, niente luci per le uscite di sicurezza. Ed Eresia comincia. Una fonte di luce puntiforme (un led) illumina le mani di un uomo che scrive e fa domande a una donna, al buio, che timidamente, risponde. Quando risponde viene illuminata, le vediamo solamente le mani, poggiate sul tavolo, i palmi rivolti verso l'alto, sui quali sono conficcate due matite, una per palmo. Le due presenze sono illuminate alternatamente, sottolineando i passaggi del loro conversare. Un conversare timido e stentoreo all'inizio, dove lui in quello che sembra un interrogatorio cerca di indottrinarla: le dice parole alle quali lei deve rispondere con altre parole, derivate da quelle che ascolta da lui, modificate di significato con l'aggiunta di una sillaba (senza/sentenza). A ogni sbaglio di lei la lista ricomincia da capo, come per farle memorizzare la sequenza. Il gioco di illuminazione lui/lei si dispiega, nervoso e imprevedibile, sempre in alternanza, con rari momenti di contemporaneità (quando le luci illuminano entrambi) finché ben presto si aggiunge una terza possibilità, una luce che illumina dal retro un drappo nero posto dietro di loro, dal quale traspare una lattiginosa opalescenza. Il resto della scena resta nel buio più totale. Lei si lascia trascinare lentamente in questo gioco ma non si rassegna a rispondere alle sillabe "di" e "no" (che lei interpreta come un comando, "dì no") con la parola che per l'uomo ne deriva necessariamente: "divino". Adeguandosi a quello che credere essere un comando, lei continua a dire no... E qui la sequenza di parole dette e ripetute si spezza (come lui spezza le matite conficcate nei palmi di lei procurandole dolore, dolore, prima parola da cui nasce tutto il gioco linguistico). Lei punta i piedi (e una luce glieli illumina mostrando vistose scarpe da ginnastica) finché si alza dal tavolo e si avvia, al buio, verso la ...foresta di tubi ai quali si appoggia, sbatte contro, si aggira tra i quali, sempre al buio. Quand'ecco che dai tubi appaiono delle lettere scritte con segni puntiformi. Prima qualche segno, timido, su uno o un altro tubo, poi, man mano che una complessa partitura di parole (tra francese, tedesco e poco italiano) e musica (accordi vocalizzati) si sviluppa, sui singoli tubi diverse lettere si illuminano di vita propria, e anche la luce dietro il drappo nero torna a farsi vedere, intanto che un merletto rettangolare campeggia in alto sulla scena, retroilluminato e luci di sena illuminano a sprazzi il ...bosco di tubi, mostrando la presenza fantasmatica della donna. Rimasta solo il personaggio femminile tesse con un filo bianco un ordito di fili sulla struttura tubolare dentro la quale era prima seduta disegnando un triangolo finché, padrona della scena, torna nei pressi del tavolo e, in piedi, intinge nell'ampolla dove prima era stata la penna, un pezzo di pane che porta alla bocca mentre incita lo spettatore a venire a vederla e tra le anse del merletto si fanno spazio le lettere che compongono il nome Jeanne D'arc.
Mai come stavolta ci sentiamo inadeguati a restituire con la parola uno spettacolo visivo ed emotivo come Eresia di Sineglossa. Un primo studio portato a Teatri di vetro in versione parziale (secondo una interessante consuetudine che vede gli studi adeguarsi alle possibilità espositive dello spazio che li ospita).
In Eresia riscontriamo puntualmente i rilievi estetici che Sineglossa riporta sul proprio sito (e anche nel programma del festival) dove si presentano, tra le altre cose, come gruppo che lavora sulla capacità che ha la luce di nascondere.
A fine spettacolo, quando Simona Sala viene a prendersi i meritati applausi, e la scena è illuminata canonicamente, scopriamo che la struttura dell'istallazione è composta esclusivamente dai tubi perpendicolari al terreno, mentre la struttura in fondo, quella che ospitava l'interrogatorio di Giovanna D'Arco, è in realtà uno spazio creato dalla mente dello spettatore (almeno da quella di chi scrive) che nell'ombra fatta dalla luce intorno a sé ha visto strutture dove in realtà non vi è che il vuoto oltre all'incrocio di alcuni tubi. Nessuna struttura oltre il tavolo e i tubi, nessuna profondità della scena, nessuna prospettiva, ma il vuoto, il nulla.
Le lettere che compaiono sui tubi di alluminio, leggerissimi, sono ricavate da dei micro-fori, illuminati dall'interno con dei led. Un lavoro artigianale, fatto con certosina pazienza da Luca Poncetta, che, per comandarne accensione e spegnimento, ha costruito ex-novo un dispositivo di comando senza dimer, dove è il semplice contatto tra un bastoncino di ferro e singole piastre di rame a dare energia ai led nei tubi e del resto della scena. Una sorta di xilofono azionato da due bastoncini che permettono un'accensione ritmata, creando movimento di luci e non suoni proprio come si legge sul programma (e sul sito): La componente artigianale è una (...) prerogativa essenziale: [di Sineglossa] nessun utilizzo di sistemi tecnologici, ma solo di manufatti autoprodotti, coi quali, però, raggiunge una qualità visiva analogica ad "alta definizione" .
Le parole che si ascoltano durante lo spettacolo sono dette, dal vivo, dalla poliedrica, duttile, versatile voce di Giancarlo Sessa, al quale abbiamo maldestramente detto, credendo di fargli un complimento, che, per la pulizia nell'esecuzione, le sue voci sembravano registrate, sbagliando, ovviamente, e gliene chiediamo scusa, perchè nessuna voce registrata può dare il calore della presenza, la pienezza e la spontaneità di una voce proferita mentre lo spettacolo si sta facendo, come fa la sua.
Il progetto su Giovanna d'Arco registra un cambiamento rispetto i precedenti Remember Me (presentato alla passata edizione di Teatri di Vetro e, quest'anno al Vertigine) e Undo (presentato lo scorso anno alla prima edizione di Teatri del tempo presente), dei quali abbiamo già avuto modo di parlare, incentrati sulle proprietà riflettenti del vetro. Questo nuovo spettacolo, del quale lo studio cui abbiamo potuto assistere costituisce un primo seme, cerca altrove il correlativo oggettivo del discorso artistico che Sineglossa compie con i suoi spettacoli. La direzione intrapresa indica una strada grandiosa, nel senso dell'allestimento (proiezioni video, due pareti di vetro parallele entro le quali scorrerà del fumo... ma non vogliamo anticipare troppo...) atte a rifondare uno dei miti della cultura occidentale quale quello di Giovanna d'Arco, quella pulzella tante volte frequentata dal teatro e dal cinema che Sineglossa indagherà in diverse stanze. Questa prima stanza, la cui dominante è il nero, indaga la parola (la seconda stanza che riguarderà la battaglia avrà una dominate rossa...) secondo le due direttrici principali, la parla detta e la parola scritta parole che Sineglossa è andata a cercare tra i verbali del processo che sono alla base delle parole scelte per il gioco combinatorio. Un monumento alla nostra civiltà basata sulla parola scritta (quella tanto vituperata da Platone) e sulla potenza numinosa della parola proferita, sulle cui implicazioni, sui significati delle quali indaga lo spettacolo opponendo a un mondo prevaricatore e storicamente maschile che si esplica in una sapienza chiusa nella parola scritta, qui indagata nel suo primo farsi, lettera per lettera, la conoscenza in fieri fondata sull'agire della dirompente conoscenza femminile impermeabile alle trappole del linguaggio (quel dire no che non puoi mai diventare divino) incarnata da una giovane impavida che si impone ai totem della conoscenza (i tubi?) con tutta se stessa, oppone la concretezza del proprio corpo, della propria organicità, del proprio essere in vita, alla parola scritta che, come diceva Platone, è solo rimembranza della conoscenza vera che sta sempre altrove.
Una lotta impari tra l'uomo e la donna, tra l'inquisitore e l'inquisita, oppure, anche, tra lo studioso e la creatura indomita che cerca di analizzare, non sempre con categorie adeguate, in un rapporto tra cultura e natura, tra agiografo e Santa che, Sineglossa ci tiene a ricordare, è lo stesso che intercorre tra l'attrice e il suo regista. E, ci permettiamo di aggiungere, è anche quello che intercorre tra spettacolo e spettatore coinvolti entrambi alla ricerca di un altrove che Sineglossa si ingegna di stanare a vantaggio dello spettatore solo dinanzi al quale e tramite il quale lo spettacolo acquista un suo senso grazie alla relazione che si instaura tra il lavoro e lo stato fisico, emotivo e culturale di chi si dispone alla visione.
ERESIA - 1. La Fabbrica delle Parole (studio)
Sineglossa (Ancona)
Con: Simona Sala - Luci: Luca Poncetta - Voci: Giancarlo Sessa
Regia: Federico Bomba